Festa della polenta a Sermoneta, tra storia, tradizione, religione, poesia, dialetto e identità di una comunità
di Dante Ceccarini
Immaginate…
Immaginate un crogiuolo dove si mescolano, integrandosi e sostenendosi a vicenda, storia, storia dell’arte, tradizione (laica e religiosa), folklore e devozione, poesia popolare (dove il termine popolare è tutto meno che sminuente), enogastronomia, antico bisogno contadino e allegra occasione di festa, il tutto “condito” da una grattugiata di espressioni dialettali di un piccolo centro dell’Italia centrale che “insaporiscono” il linguaggio comune e la vita delle persone.
Immaginate questo e scoprirete che l’immaginazione è già realtà.
Il crogiuolo è la Festa della polenta che si svolge ogni anno, da secoli, a gennaio, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, con la benedizione degli animali e del cibo. Festa, non semplice sagra, dando al termine “Festa” una dignità e un valore più profondo e pregnante.
Il piccolo centro, divenuto città, è Sermoneta, in provincia di Latina, perla medioevale dei Monti Lepini, che, affascinante e affascinata, guarda la pianura pontina e i meravigliosi giardini di Ninfa, via via fino a Latina, al promontorio della maga Circe di San Felice Circeo e al mar Tirreno con la sua corona di isole.
La Festa, il cui inizio si perde nei secoli, consiste nella distribuzione a tutto il popolo della polenta condita caratteristicamente con un sugo di salsicce e costarelle di maiale, ricoperta da una nevicata di parmigiano o pecorino e accompagnata da abbondante vino (meglio se rosso), ma ci sono anche delle varianti con la ricotta, con il baccalà, con i broccoletti, ecc.
È un’occasione di festa per tutti i sermonetani, anche per quelli che non abitano più in paese ma che colgono l’occasione della festa per tornare a Sermoneta e per incontrare parenti ed amici; e anche quelli che non possono tornare in paese, perché lontani, festeggiano allo stesso modo, preparando in quel giorno la polenta a casa loro. È un’occasione per affermare la propria identità e per mantenere ferme le proprie radici, anche a distanza. La tradizione è tenuta in vita ancora oggi da un attivissimo Comitato dei festeggiamenti, nato negli anni ’70.
La Festa della polenta a Sermoneta celebra uno dei piatti tipici della cucina italiana, la polenta, appunto, che ha radici profonde nella tradizione gastronomica di molte regioni, soprattutto nelle regioni del nord, ma è particolarmente apprezzata anche in questa zona del Lazio e nell’Italia centrale. Radici che si immergono in quel passato in cui la polenta era un alimento fondamentale per le famiglie, specialmente nei periodi in cui le risorse alimentari scarseggiavano e si sfiorava la fame.
Un po’ di storia
Il mais, detto anche granoturco, così chiamato non perché provenisse dalla Turchia o dall’Impero Ottomano, ma detto “turco” nel senso di “esotico”, “coloniale”, fu portato per la prima volta in Europa da Cristoforo Colombo nel 1493, e nei primi decenni del Cinquecento si diffuse velocemente dalla penisola iberica alla Francia meridionale, all’Italia settentrionale e ai Balcani. All’inizio non sostituì altri cereali, ma fu coltivato soprattutto negli orti o come foraggio. A lungo il suo ruolo nell’agricoltura e nell’alimentazione restò secondario, ma successivamente, con l’arrivo delle grandi carestie in Europa e delle epidemie di peste, unitamente all’aumento della popolazione europea, nel Secolo XVII, divenne un alimento abbondante ed economico per i contadini e gli strati sociali più poveri, anzi quasi esclusivo per le popolazioni delle campagne, generalmente sotto forma di polenta. Tuttavia, l’alimentazione a base di solo mais è carente di niacina (o vitamina B3) e provocava la pellagra (una grave malattia caratterizzata da dermatite, diarrea e demenza), la cui comparsa e diffusione seguì l’affermazione di questa coltura e persistette fino a tutto l’Ottocento e all’inizio del Novecento, triste segno e marchio simbolico di una grave povertà alimentare.
La tradizione della polenta a Sermoneta ha origini molto antiche: appena dieci anni dopo che il mais fu portato in Europa da Cristoforo Colombo. Infatti, il mais arrivò a Sermoneta nel 1503 grazie a Guglielmo Caetani, Signore di Sermoneta e appartenente alla famosa famiglia Caetani, una antichissima famiglia, ormai estinta, che ha espresso, tra l’altro due papi, uno dei quali è stato Bonifacio VIII, che istituì il primo Anno Santo nel 1300. Guglielmo Caetani, dopo un lungo esilio alla corte dei Gonzaga a Mantova a causa della persecuzione dei Borgia, fece ritorno a Sermoneta appena avuta notizia della morte di Alessandro VI Borgia, il Papa che gli aveva tolto tutto il feudo, compresa la formidabile Fortezza di Sermoneta, che lo aveva scomunicato e che gli aveva fatto uccidere due suoi fratelli.
Guglielmo, riabilitato, ritornando al suo paese, entrò trionfalmente il 6 settembre 1503, ricevette l’omaggio dei suoi fedeli vassalli e portò con sé il seme del granoturco venuto dall’America, che aveva visto nel nord Italia, e lo seminò sui suoi fertili territori. A testimonianza dell’arrivo del mais a Sermoneta esiste un bellissimo affresco nell’oratorio dei battenti della Chiesa di San Michele Arcangelo a Sermoneta, un affresco del Cinquecento che rappresenta una crocifissione con Cristo al centro e i due ladroni ai lati. Ebbene, in basso a sinistra, vicino al buon ladrone, è rappresentata una pianta di mais verde, con un abbozzo di pannocchia. Questa rappresentazione in affresco è una delle prime rappresentazioni del mais nella storia dell’arte, se non la prima, in Italia.
La farina del granturco fu usata inizialmente per procurare pietanze ai prigionieri, detenuti nelle terribili celle del castello di Sermoneta (la Fortezza) ed in seguito divenne cibo quotidiano per i poveri e per i pastori. A quei tempi a Sermoneta nella folta schiera dei poveri si annoveravano anche i molti pastori scesi dai monti dell’alto Lazio e dall’Abruzzo alla ricerca di pascoli più verdi per i loro bestiami, seguendo i grandi tratturi delle transumanze (vere e proprie strade per le greggi).
I pastori portavano con loro non solo il bestiame, ma anche le loro espressioni dialettali, i propri usi e costumi, le proprie tradizioni, che si scambiavano e si integravano con quelli locali, compreso in primis il dialetto. Per la ricorrenza della festa di Sant’Antonio Abate protettore degli animali domestici, il 17 gennaio, i pastori scendevano in paese dalle montagne circostanti, mentre alcuni vi salivano, provenienti dalle poche zone della pianura pontina, non ancora invase dalla palude malarica, per far benedire i propri animali ed in questa occasione veniva offerto loro, e a tutta la popolazione di Sermoneta, un piatto di polenta condita con carne di maiale e cucinata sulla pubblica piazza. Da qui scaturisce il significato profondo della parola “festa”, con l’integrazione di culture anche lontane tra di loro. Diventava inoltre un momento di socializzazione e di valorizzazione della comunità locale ed insieme un momento di devozione religiosa al santo protettore degli animali, Sant’Antonio Abate, la cui statua venerata veniva (e viene ancora oggi) portata in processione per le vie e i vicoli del paese e che poi sostava davanti ai calderoni dove stava bollendo la polenta (in dialetto sermonetano il calderone è detto callàra) per la benedizione della polenta stessa e degli altri alimenti con cui essa veniva condita (e viene condita anche oggi), cioè sugo di salsiccia e costate (costatèlle) di maiale.
Ma chi era Sant’Antonio Abate? Sant’Antonio Abate (la cui ricorrenza cristiana cade il 17 gennaio), da non confondere con Sant’Antonio di Padova, fu un santo eremita del IV secolo ed è considerato il fondatore del monachesimo cristiano d’oriente e il primo degli abati. Chiamato anche Sant’Antonio il Grande, Sant’Antonio d’Egitto, Sant’Antonio del Fuoco, Sant’Antonio del Deserto e Sant’Antonio l’Anacoreta, visse per molti decenni nel deserto della Tebaide, tentato ripetutamente dl diavolo, che lo sottoponeva a quotidiane tentazioni, sotto varie forme, alle quali resistette sempre.
Il porcellino di Sant’Antonio
Sant’Antonio è venerato come il protettore degli animali domestici e dei contadini, oltre che dei macellai e salumai, perché durante la sua vita nel deserto entrò in contatto con molte specie animali, con le quali stabilì un rapporto di amicizia e di rispetto. Tra queste tipicamente il maiale che, da simbolo demoniaco delle tentazioni che Sant’Antonio riusciva a sconfiggere con l’ascesi e la preghiera, divenne nel tempo l’elemento rappresentativo del legame tra il santo e il mondo domestico. Molto interessante è l’iconografia e gli attributi con i quali viene raffigurato il Santo. Interessante perché si intrecciano con la tradizione popolare della polenta, Sermoneta compresa. Infatti, quando vediamo un’immagine o una statua del santo, questi viene in genere rappresentato come un uomo anziano con la barba bianca e lunga, povere vesti, un bastone in mano a forme di T, la Tau greca (il tau indica la forma della croce egizia, simbolo di immortalità, poi adottato dai cristiani alessandrini, ma è anche l’abbreviazione di thauma in greco, che significa stupore davanti al prodigio, inoltre è anche l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico e riprende la profezia dell’ultimo giorno nell’Apocalisse), un campanello e, appunto, un maialino (jó porcellìtto in dialetto) che lo accompagna sempre. La presenza di questo animale nelle rappresentazioni del santo ha dato luogo a varie interpretazioni nel corso degli anni. Una di esse si riferisce al fatto che il demonio, che tentava Antonio nella sua solitudine nel deserto, gli si sarebbe presentato un giorno sotto forma di porcellino. Comunque sia, il porcellino (porcellìtto) da simbolo tentatore divenne ben presto alleato del Santo. La rappresentazione del porcellino nacque quando sorsero chiese, oratori e ospedali dedicati a Sant’Antonio Abate e il santo era invocato spesso contro la peste, le malattie contagiose e il cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio” (che non è l’attuale herpes zoster, ma un’altra malattia molto grave chiamata ergotismo). Chi era afflitto da questo male si recava all’abbazia di Saint-Antoine nel sud della Francia (paesino con il quale Sermoneta è gemellata), dove si trovano le sue reliquie. I malati erano talmente tanti che fu necessario costruire un ospedale, sostenuto dai religiosi (gli ospedalieri o antoniani). Per assicurare il mantenimento della struttura e la sussistenza dei malati si allevavano maiali, che venivano lasciati liberi perché la gente del villaggio li nutrisse e che portavano una campanella al collo per essere riconosciuti (e qui ritorna l’altro elemento iconografico del Santo: la campanella). Nacque così la leggenda del maialino di Sant’Antonio, che serviva per nutrire i malati dell’ospedale e con il suo grasso permetteva di realizzare un unguento per curare le piaghe del cosiddetto “Fuoco di Sant’Antonio”.
A dimostrare “l’affetto” per il porcellino riporto questa poesia, molto divertente, oltre che allusiva, scritta qualche decennio fa da Guido di Falco (maestro di Sermoneta) in dialetto sermonetano, nella quale a parlare è lo stesso porcellino, profetico della propria triste (!) sorte.
Jo’ porcellìtto de Sant’Antonio
Lo sàccio che so’ zùzzo e che so’ bbrutto:
le zàmpe corte, grasso e tùnno tùnno,
eppure tra le bbestie de ‘sto mùnno
jé so’ glio preferito, annanzitutto,
da Sant’Antonio nóstro benedìtto!
Se vai pe’ le cchiese e c’è ‘sto Santo,
tu vìdi a Sant’Antonio sèmbre accanto,
ben ritrattàto e sùlo, jó sottoscritto.
S’appìcceno cannèle in pura cera
pe’ devozzióne déglio nóstro Santo,
ma jé non sàccio di’, né cómme né quanto,
issi lo fào, co’ anima sincera,
pe’ devozzióne ajo Santo nella nicchia,
oppur pe’ la polènta e la zazzìcchia?
Il porcellino di Sant’Antonio
Lo so che sono sporco e sono brutto:
le zampe corte, grasso e tondo tondo,
eppure, tra le bestie di questo mondo
sono il preferito, innanzitutto,
da Sant’Antonio nostro benedetto!
Se vai per le chiese e c’è questo Santo,
tu vedi a Sant’Antonio sempre accanto,
ben ritrattato e solo, il sottoscritto.
Si accendono candele in pura cera
per devozione del nostro Santo,
ma non so dire, né come né quanto,
loro lo fanno, con anima sincera,
per devozione al Santo nella nicchia,
oppure per la polenta e la salsiccia?
Un po’ di storia della medicina e come questa si intersechi con la vita quotidiana
Quello che noi chiamiamo oggi “Fuoco di Sant’Antonio” è l’herpes zoster, un infezione virale dovuta ad un virus appartenente alla famiglia degli herpesvirus. Tuttavia, nei secoli scorsi, tempi ai quali probabilmente risale una maledizione in dialetto sermonetano (Te pòzza còglie lo fóco de Sand’Antonio! Ti possa colpire il fuoco di Sant’Antonio!), il Fuoco di Sant’Antonio comprendeva anche altre patologie cutanee e neurologiche: tra le quali soprattutto l’ergotismo. L’ergotismo era una forma di avvelenamento molto diffusa durante il medioevo, provocata dal fungo Claviceps purpurea (nome comune ergot) che infesta comunemente la segale. L’ergotismo (detto anche dai francesi mal des ardents, male degli ardenti: e qui ritorna l’idea del fuoco) era spesso fatale oltre che diffuso; comprendeva una forma gangrenosa cutanea e una forma convulsiva, con epilessia ed allucinazioni. Questi ultimi sintomi inducevano la gente a credere che la malattia fosse opera delle forze maligne e si chiedeva la grazia a Sant’Antonio Abate, al quale era riconosciuto un ruolo taumaturgico. I malati venivano accolti e curati con i mezzi di allora (unguenti, decotti, pomate, ecc.) dalla famiglia dei monaci ospedalieri chiamati Antoniani, la cui casa-madre è a Sant’Antoine l’Abbay in Francia, come si è accennato prima. Questi monaci Antoniani fondarono chiese dedicate a Sant’Antonio abate (ce n’è una anche a Sermoneta, diroccata) e annessi ospedali in tutta Europa fino ad arrivare nel sud Italia. La malattia era molto diffusa nell’Europa centrale e settentrionale perchè il pane era preparato prevalentemente con la segale (che come abbiamo visto veniva infestata dal fungo ergot, i cui alcalodi responsabili della sintomatologia sono resistenti alle alte temperature), ma, man mano che si scendeva verso sud in Italia la malattia era molto meno diffusa perché il pane era preparato prevalentemente con il grano. I malati, pertanto, sapendo ciò, si spostavano verso l’Italia e l’Europa del sud, cambiavano alimentazione (mangiando pane di grano) e la malattia progressivamente si attenuava o addirittura i malati guarivano. E’ quasi superfluo dire che tali miracolose guarigioni erano attribuite a Sant’Antonio Abate. Altrettanto interessante notare che il grasso ottenuto dai maiali veniva usato come pasta grassa-base per i vari unguenti curativi.
Ma la polenta è anche poesia
La polenta diventa anche poesia, come si può capire da questa “Ode” (non “elementare” come le Odi di Pablo Neruda, ma, più prosasticamente, “alimentare”…), scritta nel 2016 da un poeta sermonetano contemporaneo, che parla della polenta intesa sia nella sua materialità che come metafora del vivere semplice. E riconosciuta come “sorella”.
Ode alla sorella polenta
Colate d’oro
denso e cremoso e granuloso
allagano spianatoie
antiche e vissute e affamate.
Sommersa da uno tsunami di sugo rosso,
imbiancata da una nevicata di parmigiano o pecorino o tutti e due,
maritata con filari di salsicce, montagne di spuntature,
foreste di broccoletti, squaglio di formaggi,
mantelli di ricotte insaporite da grani di pepe,
fradicia di cascate d’olio,
imbastardita di filetti di merluzzo e salmone,
oppure, oppure…
senza nessun condimento,
semplice semplice e calda calda,
saziante subito
ma che ti fa rimanere con la fame dopo,
tu sei,
sorella polenta,
contemporaneamente
pane e companatico,
capriccio ed allegria,
cibo povero e amico,
sapore moderno ed antico.
Ode a sòra polènda
Colàte de òro
dènzo e cremóso e granulóso
allàgheno spianatóre
andìche e vissùte e affamàte.
Sommèrza da ‘nó zzunàmi de sùgo rùscio,
‘mbiangàta da ‘na nevicàta de parmiggiàno o pecorìno o tutt’e dóa,
maritàta co’ ffilàri de zazzìcchie, mondàgne de spuntatùre,
forèste de broccolétti, squàglio de càci,
mandégli de ricottèlle ‘nzaporìte da gràni de pépe,
fracicàta da cascàte d’óglio,
‘mbastardìta da filétti de merlùzzo e sarmóne,
oppuraménte, oppuraménte…
senza niciùno condiménto,
sémbrice sémbrice e càlla càlla,
attrippànte sùbbeto
ma affamànte dóppo,
tu sì,
sòra polènda,
aglio stésso moméndo,
pàne e combanàtico,
sfìzzio e allegrìa,
cìbbo póro e ammìco,
sapóre modèrno e andìco.
Un po’ di dialetto
Come la religione e la tradizione possano intridersi e mescolarsi è dimostrato dall’uso del dialetto, nel nostro caso il dialetto di Sermoneta, che commenta, a suo modo, le varie festività paesane. Il dialetto evidenzia, sottolinea, scherza su ogni tema ed anche sulla religione e sulle tradizioni. Va al di là della sacralità delle stesse, addirittura le prende in giro e prende in giro anche sé stesso e le debolezze umane. Il dialetto (e il sermonetano non fa eccezione) è ironico e autoironico, può essere pragmatico, ma anche poetico, pratico (ci dice come risolvere le questioni di tutti i giorni), ma anche filosofico (ci dà ammonimenti e insegnamenti). Allevare un maiale, addirittura a volte dentro casa come se fosse un membro della famiglia, o poco fuori di casa, in qualche piccolo orto, era importantissimo e faceva la differenza tra la miseria e il tirare avanti. Il maiale si allevava tutto l’anno, veniva fatto ingrassare, veniva accudito e coccolato e, alla fine, veniva “sacrificato” sull’altare della povertà. Dal maiale si ricavava tutto, non si buttava via niente (Dèglio pórco ‘nze scarta gnènte): carni, interiora, sangue, cotenna, cartilagini, ecc. E, se il maiale moriva per malattia o veniva rubato, era una disgrazia per l’intera famiglia. Era la fame, o quasi. Era quella sottile linea rossa tra il sopravvivere o il morire. Perciò si venerava il Santo, ma si venerava un po’ anche il maiale oppure si venerava, e si ringraziava, il Santo perché lui aveva protetto il maiale. L’importanza della polenta nell’alimentazione quotidiana si capisce da questo detto:
La polènta non è ppàne, ma chi la tè non se mòre de fàme!
(La polenta non è pane, ma chi ce l’ha non muore di fame!)
Tuttavia, nonostante ciò, il dialetto scherza, insegna e ammonisce su come “relazionarsi” (per così dire) con il maiale e la polenta. Riporto solo alcuni dei tanti proverbi e detti dialettali sermonetani che parlano di questo.
Tra jó cìcio, jó faciòlo e la lendìcchia jó méglio legume è la zazzìcchia!
(Tra il cece, il fagiolo e la lenticchia il migliore legume è la salsiccia!).
Quànno ggìra la briccóna, la polènta è la più bbòna
(Quando ti prende la fame, “la briccóna”, la polenta è ancora più buona)
Notare che la fame, scaramanticamente e quasi con cortesia, viene definita “briccona”.
J’agostinéglio, ‘nzéme alla zzazzìcchia, te fào spostà gli sàndi dalla nìcchia
(L’agostinéglio, insieme alla salsiccia, ti fa spostare i santi dalla nicchia)
“L’agostinéglio” è un tipo di frumento di montagna ottimo per preparare la polenta; le piante di questa varietà di mais non sono molto alte ma da loro si ottiene una farina e quindi una polenta di altissima qualità.
Tra tutti i farinàci, jo più bbéglio pégli polentàri è gl’agostinéglio
(Tra tutti i farinacei, il più bello per i polentari è l’agostinéglio)
Se glio féno non se bbàgna, la polenta non se màgna
(Se il fieno non si bagna, la polenta non si mangia)
Infatti, se non piove il granturco non viene bagnato, o naturalmente con la pioggia o innaffiandolo, la pianta non cresce e la polenta non si può fare.
Se la polenta bòna vòi magnà, pe’ nn’ora jó stennatùro fà girà!
(Se la polenta buona vuoi mangiare, per un’ora lo “stennatùro” fai girare!)
Lo “stennatùro” è un lungo bastone di legno che serve per girare la polenta nel calderone (callàra).
Con il passare dei secoli la polenta non viene condita solo con il sugo e la carne di maiale (salsicce e costate), ma anche con altri alimenti, come si deduce da questi altri detti.
Se màgni la polenta co’ ricòtta, la trìppa sùbbeto te s’abbòtta
Se mangi la polenta con la ricotta, la pancia subito si sazia
Polenta e baccalà è jó méglio che ce stà!
Polenta e baccalà è il meglio che c’è!
‘Nó signóre chièse a ‘no pastóre: “Se tu fùssi papa che te magnerìsti?” – “Polenta co’ saràga: ‘nci so’ crìsti!”
Un signore chiese ad un pastore: “Se tu fossi papa che mangeresti?” – “Polenta con l’aringa: non ci sono cristi!”
Ma la polenta, oltre alla “panza che s’abbòtta”, ha un altro effetto collaterale…
La polènta prìmma t’abbòtta e dóppo t’allènta!
La polenta prima prima ti sazia e dopo ti fa andare in bagno!
Un modo di dire, per indicare il tempo in cui fare la polenta, sia per la ricorrenza del Santo il 17 gennaio, sia perché gennaio (e l’inverno tutto) erano mesi molto difficili da affrontare, è:
Gennàro vòle la polènda!
Gennaio vuole la polenta!
Date e appuntamenti per la Festa della polenta a Sermoneta nel 2025
Da qualche decennio la polenta viene fatta sia a gennaio ma anche a febbraio, oltre che in altre particolari occasioni. Non si fa più solo nel centro storico collinare di Sermoneta, ma anche nei vari borghi sermonetani della pianura.
Ecco le date e gli appuntamenti per il 2025: 19 gennaio Centro storico, 19 gennaio Doganella, 26 gennaio Sermoneta scalo, 2 febbraio Pontenuovo, 9 febbraio Tufette.
Conclusione (ma non troppo)
I calderoni per la polenta (grandi) e per il sugo (più piccoli) che si preparano già dal mattino presto, quando è ancora buio, il fuoco di legna che si accende piano, la brace che feconda lenta il loro fondo; la farina di polenta che si getta piano piano piano, un po’ alla volta, senza fretta (nessuno che ti corre appresso, se non la fame atavica, ma questa può aspettare un altro po’); il lavoro duro del polentaro con il bastone che deve girare la polenta per tanto tempo e la stessa cosa avviene col sugo di carne di maiale; polenta e sugo che sobbolliscono dapprima pigri, indolenti e poi sempre più veloci e prepotenti; le bolle che vengono a galla spalancando la bocca perché hanno sete di aria fresca; l’alternarsi dei polentari al bastone-menatùro, l’aggiungere altro legno che il fuoco mangia avido, il passarsi mano a mano, come una medicina, il vino rosso che non finisce mai; e poi l’arrivo di bambini curiosi e dei vecchi golosi; le campane che echeggiano il mezzogiorno; la fila di gente (di ogni età, ceto, sesso e condizione sociale: democrazia assoluta!) che va mano a mano formandosi, ingrossandosi, rumoreggiando impaziente e allegra; le battute salaci e scherzose ai polentari che non fanno bene la polenta, non la fanno come andrebbe fatta, a regola d’arte (“è tróppo lènta”, “è tróppo tòsta”, “puzza de léna”, la legna, “tè i pallòcchi”, cioè ha i grumi e quindi non si è sciolta bene, quest’ultima è offesa gravissima!) e i polentari che rispondono per le rime; la “processione” con in mano tutti i tipi di stoviglie che si hanno dentro casa per mettere la polenta: piatti di ceramica, bianchi, piani e fondi, piatti di legno incavati a mano (le scifèlle), pentoline, pentole e pentolone (per le famiglie numerose o per chi ha più “fame”, ma le due cose coincidono), tegamini, padelle e coperchi, forchette, cucchiai più o meno grandi, mestoli, cucchiaini per i più piccoli o per i “signori” (per darsi un bon ton da galateo), una volta addirittura una gavetta militare, souvenir della seconda guerra mondiale; e poi l’arrivo della processione, quella vera, con il prete e i chierichetti con l’incensiere, la statua dell’ineffabile Sant’Antonio, naturalmente con il fido porcellino a fianco, le autorità comunali tutte tronfie ed impettite nel loro incarico istituzionale, la doppia fila di donne dell’Azione Cattolica con il velo d’ordinanza ricamato in testa (quello delle grandi occasioni), e poi il resto della folla dietro e naturalmente la banda musicale in divisa che eseguiva sempre vetusti inni religiosi e macerate marcette militari; la benedizione (non urbi et orbi…) ma della polenta, del sugo con le carni di maiale e, per estensione, degli animali, del pane benedetto e di tutti i poveri cristi presenti; ed infine il momento clou: la distribuzione, quasi sempre disordinata, allegra, caciarona, scomposta, anarchica dell’alimento dal colore dell’oro e del sangue, l’oro inteso come cibo e il sangue inteso come fatica. Così era una volta a Sermoneta. Un mondo fa. Così la ricordo io da bambino, nato ad un metro dalla piazza dove si fa la festa. Oggi la realtà della festa è molto diversa, come è diverso il mondo, ma, allo stesso tempo, è anche uguale nei neuroni della memoria, nelle sinapsi degli odori, nelle retine degli sguardi affamati della gente e nelle membrane timpaniche delle grida di gioia, di grandi e piccoli.
No, non pensate che ciò sia un amarcord sterile e piagnone, scusate; questa, invece, è la nostra piccola identità, la nostra grande ricchezza.
La stessa di tutti i piccoli centri italiani.
Credit foto: Archivio Fondazione Roffredo Caetani, ..
L’Autore: Dante Ceccarini, nato a Sermoneta, è medico e pediatra, scrittore e poeta in lingua italiana e in dialetto di Sermoneta, pluripremiato in Premi letterari nazionali e internazionali, presidente e membro di giuria di svariati Concorsi Letterari, studioso di dialetti italiani e di storia locale, co-fondatore e Presidente dell’Archeoclub di Sermoneta.
Giornalista detentore dal 2015 del Guinness World Records TV e Ambasciatore Borghi più Belli d’Italia.