Bergamo nel segno del coraggio. Virtù, tesori e magnificenze della città simbolo della resilienza alla pandemia.
Una prima avvisaglia del carattere tenace del bergamàsch l’ebbi da ragazzo a tavola con i mie cugini, orobici doc, convinti fino al litigio che la pronuncia esatta della parte molle del pane fosse quella lombarda con l’accento sulla o. Una caparbietà che spontaneamente associavo , durante i miei soggiorni nelle “due città in una” (Bergamo Alta /Sìta Alta; Bergamo Bassa Sìta Bàsa), con la possanza delle antiche mura venete (patrimonio dell’Umanità dal 2017), edificate dalla Serenissima per munire il suo principale bastione dei domini occidentali di terraferma.
Ogni strada e piazza della Città Alta richiamava nella mia fantasia di adolescente immagini di eroici condottieri e di aspri duelli, di nobili fanciulle come Medea, la prediletta del grande condottiero bergamasco Bartolomeo Colleoni, icona romantica, resa immortale dall’inconsolabile padre con il più grande dei doni, la splendida scultura sarcofago, opera di Antonio Amodeo, che adorna la Cappella Colleoni, sempiterno monumento alla caducità della vita ma anche immenso tributo alla grazia e alla bellezza di una adolescente stroncata da una polmonite e al tenero amore paterno che volle sistemare accanto alle spoglie mortali della figlioletta il corpo imbalsamato del suo uccellino preferito, ancora oggi visibile in una graziosa teca conservata nella sagrestia della Cappella su richiesta al custode.
Ma il mausoleo dedicato al condottiero, uno dei tesori di inestimabile valore artistico della Citta Alta, richiamava in me un’altra possibile ragione della caparbietà bergamasca. Ricordo infatti quando chiesi a uno dei miei cugini più smaliziati il significato dello stemma araldico del capitano di ventura originario di Solza. Alla mia domanda rispose con il sorriso beffardo di chi la sa lunga “Sono gli zenzerli del Colleoni”. “Zenzerli?”, ma sì come li chiamate voi a Roma “bale, coiò”?, rispose un poco piccato di fronte al mio stupore. ”Sì, certo. Più o meno”, confermai. “Ma addirittura tre?”, controbattei. Un luce balenò nel suo sguardo e in un attimo mi resi conto che avere gli attributi da queste parti, aveva un ben preciso significato. Essere tosti con una marcia in più.
Quella che mettevamo nelle improvvisate macchinette di legno con cui ci lanciavamo a folle velocità giù dal colle dove domina il Castello di San Vigilio (la cui prima fondazione risale al XII secolo,sebbene strutture fortificate fossero presenti a partire dal VI secolo), spettacolare punto di osservazione che consente con i suoi 496 metri di altitudine, di ammirare una vastissima porzione di territorio, dall’imbocco delle Valli principali (Brembana, Seriana) all’antica Val Breno e l’intera spianata di Almenno, per arrivare alla pianura e ai centri posti all’imbocco della Val Martino, oggi raggiungibile con una comoda funicolare, la seconda della cittadina orobica (la prima più famosa è quella che unisce da più di un secolo Bergamo Bassa con quella Alta), al costo di un biglietto della tratta urbana ATB.
Un giorno di particolare calma, uno dei miei cugini mi fece osservare sulla collina di San Vigilio i roccoli, classiche postazioni per l’uccellagione , in uso fino agli anni ’60 dello scorso secolo, oggi considerata una pratica crudele, ma un tempo l’unica pratica venatoria che consentisse a montanari e contadini di aggiungere nel piatto dove prevaleva la polenta, la saporita carne degli uccelli stanziali o di passo. Il classico condimento del piatto tipico locale, la polenta con gli osei (uccelli),da me aborrito ma gustato con piacere dai mie cuginetti, che irridevano alle mie ritrosie ma che con grande garbo e generosità amavano introdurmi alla scoperta dei tesori e delle tradizioni della loro città.
Ricordo interi pomeriggi trascorsi in loro compagnia tra le strade della Città Alta, rapito dalle bellezze del centro storico, si partiva dalla Piazza Vecchia dove sorge il Palazzo della Ragione, risalente al XII secolo, un tempo Palazzo del Comune, per proseguire con la visita alla Chiesa di San Michele al Pozzo Bianco, che serba al suo interno un autentico capolavoro la cappella dedicata alla Beata Vergine con affreschi di Lorenzo Lotto raffiguranti la vita di Maria. Si proseguiva poi passando per Piazzale della Fara, un ampio prato utilizzato come campo di calcio da generazioni di bergamaschi, per infinite partite all’ombra del Convento di Sant’Agostino.
Quindi ci si inerpicava per la salita che porta alla Torre di Gombito (XIII secolo), da cui godevano di una vista magnifica, riuscendo a intravedere in lontananza Milano. Quindi si giungeva in uno dei luoghi più caratteristici della Sìta Alta, Piazza Vecchia definita dal grande architetto francese Le Corbusier, “La più bella piazza d’Europa”, luogo che ai miei occhi appariva un miracolo di armonia con la sua fontana, la sua Torre Civica (o Campanone), alta 52 metri, e gli splendidi edifici che la circondano (i primi edificati nel Quattrocento), che conferiscono alla piazza una forma rettangolare quasi perfetta. La nostra promenade si concludeva come in una laica processione, davanti al Duomo di Bergamo, la magnifica Basilica in stile romanico di Santa Maria Maggiore con l’adiacente Mausoleo di Bartolomeo Colleoni.
Ma a rapire la mia fantasia erano sempre e comunque le possenti mura venete, che mi rimandavano a quelle medievali descritte nel celebre racconto dello scrittore danese Peter Jacobsen “La Peste di Bergamo” (1881):”La vecchia Bergamo s’innalzava in cima al basso colle,al sicuro dietro le sue mura”. Una difesa che non servì a salvare la cittadina orobica dalla pestilenza del !630 (Manzoni di servì di una descrizione coeva dell’epidemia bergamasca per il suo capolavoro), ma da cui il tenace popolo che l’abitava seppe rialzarsi con nuovo slancio, contribuendo alla sua fioritura settecentesca e alla crescita economia dei secoli successivi. Un miracolo che si è rinnovato anche di recente con la tremenda prova a cui è stata sottoposta la “Città dei Mille” (così detta per il contributo bergamasco all’impresa garibaldina nel Mezzogiorno), dando prova di una capacità di rinascere dalle proprie disgrazie davvero unica e ammirevole. D’altronde direbbe uno dei mie cugini, “Pota,Osvaldo, Berghem, mola mia”.
Giornalista italiano con oltre 40 anni di esperienza nel mondo dei media.
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