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Con il laser rinascono le fotografe del passato
Di Francesca Gorini
Il poeta Guido Gozzano trovava “nelle sembianze dei dagherrotipi” un segno tangibile delle buone cose del passato: oggetti di un’epoca tramontata in qualche modo rassicuranti, impronta di un passato a cui legava un’idea nostalgica di felicità.
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In realtà, il dagherrotipo è un qualcosa che da sempre affascina anche il mondo della scienza, a partire dalla straordinaria tecnica messa a punto, nel 1839, dal francese Louis Jacques Mandé Daguerre: imprimere un’immagine, ad altissima risoluzione grazie alla sua nano-struttura, su una lastra di rame trattata con uno strato di argento applicato elettroliticamente, quindi lucidata e sensibilizzata con vapori di iodio, passaggio che permetteva di “fissare”, come riflessa, un’immagine.
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Una tecnica allora rivoluzionaria, che conobbe successo anche perché per la prima volta permetteva di ottenere ritratti fedeli: il suo uso si diffuse, quindi, rapidamente sia tra le famiglie più facoltose, sia nel mondo del giornalismo, allora agli albori.
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In Italia il primo esperimento di dagherrotipia fu fatto a Firenze, e proprio la città toscana è stata teatro di un innovativo progetto di ricerca che ha unito mondo della ricerca scientifica e mondo artistico nel tentativo di restaurare e valorizzare antichi dagherrotipi.
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Il progetto, dal titolo “Tecnologie laser e metodi innovativi per la caratterizzazione e conservazione dei materiali fotografici e d’arte moderna” – DIAGNOSE, ha visto protagonisti il Consiglio Nazionale delle Ricerche con l’Istituto Nazionale di Ottica, il Museo Galileo, la ditta El.En., azienda leader nel settore delle tecnologie laser, e l’Opificio delle Pietre Dure, punto di riferimento nazionale nel settore della conservazione di opere d’arte, oltre che centro di restauro, ricerca e alta formazione.
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Per due anni, le istituzioni hanno unito le competenze e lavorato insieme eseguendo indagini non invasive su un’ampia collezione di dagherrotipi – oltre a lastre fotografiche e pellicole- provenienti da vari archivi presso il Museo Galileo di Firenze, la Fondazione Alinari per la Fotografia e il fondo fotografico dell’Opificio stesso, riconosciuti per il loro valore storico e artistico.
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Obiettivo: sviluppare nuove metodologie diagnostiche per identificare materiali e fenomeni di degrado, e mettere a punto avanzate tecniche di restauro per preservare questi delicati tesori.
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Spiega Jana Striova, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Ottica del Cnr che ha coordinato il progetto: “I protocolli diagnostici che abbiamo sviluppato includono tecniche di spettroscopia e tomografia ottica: utilizzano, cioè, la luce e laser di ultima generazione per sondare questi oggetti del passato e analizzarne lo stato di conservazione.
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In questo modo, si riduce la necessità di prelevare campioni e si evita di compiere indagini invasive su reperti spesso estremamente fragili, e soggetti a progressivo deterioramento”.
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La tomografia ottica (OCT) consente di rilevare la micro-topografia della superficie delle delicate lastre dei dagherrotipi e di misurare i prodotti di corrosione, in particolare i composti a base di rame e argento, che si formano a causa della trasformazione dei materiali presenti nei dagherrotipi quando entrano in contatto con l’aria, l’umidità e gli inquinanti ambientali.
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Questi composti creano strati sottilissimi sulla superficie innescano talvolta ulteriori reazioni chimiche e compromettono la corretta visualizzazione dei ritratti di uomini, donne e bambini. Questi ritratti, molto popolari nel XIX secolo, rappresentano una preziosa testimonianza della tradizione ritrattistica e offrono uno sguardo sulla società di quel periodo.
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La fragilità delle lastre di dagherrotipia richiede metodi di conservazione accurati e, preferibilmente, senza contatto fisico con la loro superficie. Per questo motivo, la rimozione dei prodotti che offuscano l’immagine registrata nei dagherrotipi è stata uno degli obiettivi principali del progetto. A tal fine, è stata sviluppata una metodologia di pulitura mediante laser pulsato, in collaborazione con l’El.En. e con l’Istituto di Struttura Elettronica e Laser – FORTH in Grecia. “Sono state trovate le condizioni ottimali per ridurre, in maniera molto controllata, gli strati di degrado, e riportare in luce l’immagine nascosta”, specifica Diego Ivan Quintero Balbas, ricercatore del CNR-INO che ha partecipato al progetto.
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La valutazione dei risultati ha richiesto l’impiego di tecnologie di grande precisione, come ad esempio la microprofilometria laser a scansione ad alta risoluzione e altre tecniche di imaging, come l’imaging multispettrale. Queste tecnologie hanno permesso di caratterizzare i prodotti formatisi in passato a causa di metodi di pulitura non adeguati e di valutare come questi siano stati rimossi dalla superficie, assicurando l’integrità delle lastre.
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Il progetto, conclusosi recentemente, concepito come una ricerca multidisciplinare e inter-istituzionale rappresenta un’innovazione nel campo della conservazione dei beni culturali fotografici: le conoscenze acquisite potranno, infatti, essere estese a numerose altre realtà.
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Foto di copertina: Fondazione Alinari per la Fotografia. DVQ-F-1667
Giornalista detentore dal 2015 del Guinness World Records TV e Ambasciatore Borghi più Belli d’Italia.